NELLA SEPARAZIONE, PIÙ VICINI 

Affrontare la sfida del virus Covid-19, non è stato facile: ciò ha imposto a ognuno di restringere la propria libertà, di mettere da parte i legittimi diritti per il bene e la salute pubblica, di tenersi lontani per evitare una maggiore diffusione del contagio. Tutto ciò aveva in sé, a mio parere, almeno due prospettive, una di rischio e una di opportunità. Il rischio era quello di veder aumentare ancora di più il sospetto reciproco, di essere gli uni per gli altri una minaccia; l’opportunità era quella di riconoscerci nuovamente fratelli che percorrono l’unica strada della vita. Come parroco ho sperimentato fino in fondo questi due aspetti e li ho visti incarnati negli atteggiamenti delle persone delle mie comunità. Ho chiesto ai parrocchiani che il tempo del’ “Io resto a casa” diventasse occasione per una rinnovata riflessione sul valore della vita, sempre più importante di tutto ciò che, nella vita, siamo o facciamo. Ho visto tanta umiltà, spirito di abnegazione e di volontariato in quel che potevano essere utile all’altro, ma soprattutto ho percepito come davvero la preghiera è desiderata e come la fede, grazie a Dio, è intesa non come fatto individualistico, ma come “fatto di popolo”: la gente ha cercato e cerca la Chiesa, le sue celebrazioni, la sua proposta pastorale. Ho dovuto, come tutti, vivere il periodo dell’allontanamento, dello stare in casa, del celebrare l’Eucaristia completamente da solo. Questo ha creato in me un’esperienza provvidenziale: ho visto i volti delle persone, le ho sentite presenti! A volte la preghiera per noi preti è un po’ massificata, pensando a quel che dobbiamo dire o fare. Questa occasione ha ribaltato la prospettiva: ho pregato davvero per le persone, per le famiglie, ho condiviso i loro problemi e le loro angosce, ho sperimentato che l’unione spirituale è più forte di qualsiasi contatto fisico e ora, pure nel lutto, anche chi mi è stato tolto mi appare finalmente in tutta la sua preziosa bellezza.

D. CANTABONI