“Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”: sono questi i sentimenti di Giacomo e Giovanni nei confronti dei samaritani, che non vogliono ricevere Gesù “perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme”. Ma il Signore li rimprovera (Lc 9,51-56). E proprio un samaritano sarà l’attore principale della parabola con cui Gesù risponde alle domande di un dottore della legge (Lc 10,25-37). Questi sa bene che per ereditare la vita eterna deve amare il Signore, suo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5) e il prossimo come sé stesso (Lv 19,18): ma chi è il prossimo? Gesù racconta allora di “un uomo, un tale” che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, cade nelle mani dei briganti che gli portano via tutto, lo percuotono a sangue e lo abbandonano mezzo morto. Ed ecco arrivare uno dopo l’altro tre personaggi: un sacerdote che passava per caso, un levita (era una strada che si percorreva continuamente per il servizio da prestare al Tempio) e un samaritano, un uomo appartenente a un popolo considerato straniero (cf 2Re 17), disprezzato (cf Sir 50,25-26) e odiato (cf Gv 4,9; 8,48). Tutti e tre vedono l’uomo in fin di vita (Lc 10,31.32.33), ma i primi due passano dall’altra parte (vv. 31.32). Gesù non spiega perché: si lascia agli ascoltatori il compito di capire e valutare. L’indifferenza del sacerdote e del levita è in netto contrasto col comportamento del samaritano che, avvicinandosi al ferito, è sconvolto da un sentimento viscerale profondo (v. 33), lo stesso provato da Gesù per la vedova di Nain (7,13). In entrambi i casi Luca esprime col verbo splanchnizomai questa “compassione”, questo sconvolgimento irrazionale che porta a intervenire in situazioni di sofferenza, di bisogno. Così, nel v.34, il samaritano (un nemico!) non può fare a meno di prendersi cura di uno sconosciuto trovato per caso sulla sua strada: versa olio e vino sulle sue ferite, lo fascia, lo carica sulla propria cavalcatura, lo porta in albergo, si ferma con lui. L’indomani lo affiderà all’albergatore, chiedendogli espressamente di averne cura. Gli dà due denari: “Ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno” (v.35).
Ma chi è il buon samaritano? L’espressione è divenuta sinonimo di un uomo caritatevole, ma le tradizioni antiche vedono in lui un’immagine di Cristo. Frédéric Manns passa brevemente in rassegna alcune interpretazioni dei Padri della Chiesa (Paraboles rabbiniques et enseignement de Jésus, Sidic XX, 1987/1,16-17). Nella più celebre, che Origene dichiara di aver ricevuto a sua volta da un anziano della Chiesa, ogni dettaglio ha un significato: l’uomo che discendeva rappresenta Adamo; Gerusalemme: il Paradiso; Gerico: il mondo; i briganti: le potenze nemiche; il sacerdote: la Legge; il levita: i profeti; il samaritano è Cristo. Le ferite sono la disobbedienza, la cavalcatura è il copro di Cristo (cf Is 53,4); la promessa del samaritano di ritornare raffigura la seconda venuta del Cristo. Si ha l’impressione che la parabola sia divenuta un’allegoria, osserva Manns, ma in realtà chi ha trasmesso questa interpretazione ha capito bene che si tratta di una rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini. Fra l’altro, per il “ritorno” del samaritano, Luca ricorre allo stesso verbo (epanérchomai: v.35) che usa per evocare il ritorno del Cristo alla fine dei tempi in 19,15. “Chi è il buon samaritano se non il Salvatore?”, osserva anche Clemente Alessandrino, “è lui che ha versato sulle nostre anime ferite il vino, il sangue della vigna di Davide. È lui che ha fornito in abbondanza l’olio, la compassione delle viscere del Padre”.
La lettura cristologica della paraboila è dunque molto antica e ci aiuta a coglierne il messaggio: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (cf Gv 13,34; 15,12). Ognuno di noi deve rispondere alla domanda posta da Gesù al termine della parabola: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Sarà la nostra stessa risposta a spingerci a un determinato comportamento, più di qualsiasi imposizione dall’esterno. Al dottore della legge che risponde: “Chi ha avuto compassione di lui”, Gesù rivolge un invito: “Va’ anche tu fa’ così”. Non dobbiamo chiederci allora chi sia il nostro prossimo, ma farci prossimo degli altri: “Apriamo i nostri occhi per guardare le ferite di tanti fratelli e sorelle”. Siamo chiamati “a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta. Non cadiamo nell’indifferenza. “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (Misericordiae vultus 15).