XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 25 Agosto 2019

Lc 13,22-30

Chissà quale sentimento avrà spinto quell’uomo senza nome e senza volto, citato dall’evangelista, a porre a Gesù una domanda scomoda. La predicazione di quel Maestro non poteva lasciare tranquilli; nei versetti precedenti, Luca ci ha presentato un Gesù che esorta, che invita con decisione a cambiare vita, a riconoscere il suo Regno in un piccolo pugno di lievito. Anche qui, Gesù non risponde dicendo se i salvati saranno pochi o tanti ma invita ad agire, a porsi in cammino proprio come Lui sta facendo in direzione di Gerusalemme, meta e destino della sua vita eterna. In questo suo comando però non si rivela estraneo alla logica umana: Lui conosce le nostre fatiche, i nostri limiti e le nostre fragilità. Risuona così con dolcezza l’uso del verbo imperativo rivolto a tutti noi, quello «sforzati» che nella radice greca agone ci rimanda al concetto di lotta e di fatica. È come se Gesù ci ordinasse di continuare un’azione già avviata, che pure ci costa, come se riconoscesse le nostre fatiche. Perché la porta non è ancora chiusa: Dio desidera che entriamo e ha fissato per noi questo tempo di conversione. Certo, la porta è stretta: per entrare dobbiamo farci piccoli, proprio come quando si entra nella grotta della Natività a Betlemme e si è costretti ad abbassarsi, ad abbracciare l’umiltà della nostra piccolezza di fronte al prodigio incredibile di un Dio che ci salva. Perchè Lui il Salvatore, la porta stretta. Ecco allora che non bastano le buone opere, le nostre pratiche religiose. Più che fare, bisogna camminare; più che onorare, bisogna amare. Più che contare, bisogna testimoniare. E allora chiediamoci, con Dietrich Bonhoeffer: «Se mi accusassero di essere cristiano, troverebbero delle prove contro di me?».

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