NON ABBIAMO BISOGNO DÌ PAROLE

“È il Verbo di Dio si fece carne…” (Gv 1,14)

Giovanni ci ricorda che in Gesù, “il Verbo incarnato”, la Parola di Dio ha avuto il suo compimento. Ma il dialogo tra Dio e l’uomo non si è esaurito…

Anzi, è proprio attraverso l’uomo che la Sua Parola continua a “farsi  carne”  nel mondo e nella storia. Ed è proprio Gesù che, nel Vangelo, invita anche noi a “farci carne”. Alcuni giorni fa mi è capitato di leggere una testimonianza (“L’annuncio converte solo se diventa carne”, da “L’Angelo in famiglia”, novembre 2015) di Ernesto Olivero (il fondatore del Sermig e dell’Arsenale della Pace), che raccontava una toccante storia di conversione. Era la storia di Pietro Cavallero, un rapinatore che aveva commesso ben 5 omicidi e numerosi ferimenti, il quale, dopo aver trascorso oltre vent’anni in prigione, era stato destinato all’Arsenale della Pace, per scontare lì il resto della sua pena, in regime di semilibertà. Quell’uomo, da sempre soprannominato “la belva” a motivo della sua spietatezza, giunto in quella comunità, si era sentito finalmente accolto senza pregiudizi, da persone semplici ed operose che, anzichè limitarsi ad annunciare il Vangelo, lo vivevano pienamente, senza ipocrisia. In quell’uomo spietato e senza scrupoli, che fino ad allora, nonostante i 20 anni trascorsi in carcere, non si era mai ravveduto, tutto ciò suscitò un turbamento interiore, che lo portò ad un desiderio di rinascita e che lo spinse a pentirsi, a chiedere il perdono ai familiari delle sue vittime, a compiere gesti di espiazione, abbracciando la fede e morendo confortato dal perdono di Dio. Questa storia di conversione non era partita da un annuncio verbale, né da un invito al pentimento, ma da una testimonianza di Vangelo “incarnato”, di quello che don Paolo Arnaboldi amava definire “Amore e fatti”. Ora, come suggerisce lo stesso Ernesto Olivero, proviamo a riflettere un po’ sulle nostre comunità ecclesiali: sono davvero luoghi in cui si incontra il Vangelo incarnato? Le tante attività pastorali assorbono molta parte del nostro tempo, ma in questo tempo ci facciamo davvero “Carne”? Quanta attenzione rivolgiamo a chi attende di essere accolto, soccorso, ascoltato? Quante delle nostre iniziative sono aperte alla solidarietà, alla condivisione, all’integrazione? Purtroppo corriamo spesso il rischio di trasformare le nostre comunità in luoghi chiusi, simili a piccoli circoli ristretti, in cui stiamo bene solo noi, in cui ci piace coltivare il nostro bell’orticello fatto di simpatiche amicizie, dove non c’è spazio per il “diverso”, il “nuovo”, il “lontano”… Luoghi rassicuranti in cui ci sentiamo al riparo da ogni possibile pericolo, spazi esclusivi ed escludenti, nei quali operiamo con l’illusione di fare del bene agli altri, ben sapendo, in coscienza, di farne solo a noi stessi. Papa Francesco, che ha alle spalle una lunga esperienza di pastore, fin dall’inizio del suo pontificato ci sta mettendo in guardia da questo pericolo, rivolgendo continuamente a tutti noi l’appello ad aprire le nostre comunità, a vivere un cristianesimo autentico, che sia libero dalle ipocrisie e incarni davvero il Vangelo. Se ci pensiamo bene, è un appello alla conversazione. Da decenni rimbomba nel cuore di ogni cristiano anche la voce di Paolo VI, il quale aveva ribadito più volte: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri… o se ascolta i maestri lo fa perchè sono dei testimoni” (E. N. N 41). Quante volte ho sentito citare questa affermazione!!! Eppure, sembra che noi ancora non abbiamo compreso che testimoniare il Vangelo non vuol dire “interpretare” un ruolo, quello del cristiano, intavolando bei discorsi, recitando preghiere e giudicando i peccati altrui, dall’alto della nostra presunta “purezza”. Il ritornello di una famosa canzone, alcuni anni fa, ripeteva: “Non abbiam bisogno di parole per spiegare quello che è nascosto in fondo al nostro cuore”. Come dice Ernesto Olivero, nella Chiesa non è necessario preparare rivoluzioni: basta entrare in una normalità che sceglie ogni giorno di stare dalla parte di Gesù. Non è necessario trovare soluzioni: basta porsi accanto a chi soffre, per fargli semplicemente sentire che non è solo, e lasciare che Dio faccia il resto. Se sapremo essere una Chiesa aperta all’ascolto, all’accoglienza, all’aiuto… Se non giudicheremo, se non condanneremo, se sapremo guardare anche ai nostri limiti, solo allora saremo “Carne” e susciteremo conversioni.

MARIELLA CAPOGROSSO

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